la promessa, o la prova, che un’intelligenza e una cultura superiore possono avere una visione delle cose più profonda e più vera di quella consentita dallo specialismo.
Naturalmente, Sciascia non è stato l’unico intellettuale del secondo novecento a parlare delle cose del mondo guardandole dall’alto, dalla specola della letteratura e della filosofia; ma a differenza di Pasolini e di Fortini, Sciascia non aveva, a proteggerlo, l’armatura di un’ideologia.
Ciò significa che nessuna idea preconcetta condizionava i suoi movimenti dando un corso obbligato alle sue idee: il che si apprezza particolarmente in tempi anideologici come dovrebbero essere questi. Sciascia non legge la realtà attraverso il filtro di Marx o di Adorno: adopera Manzoni, Pirandello, Brancati, Savinio, Stendhal, e li adopera non per riprodurre la loro visione del mondo ma per assorbire qualcosa della loro saggezza. Non crede che Manzoni abbia ragione quando parla della Provvidenza, crede che ce l’abbia quando riconosce in don Abbondio un emblema del trasformismo e della viltà italiana.
C’è un libro di Lionel Trilling che s’intitola The moral obligation to be intelligent: ogni pagina di Sciascia sembra scritta per adempiere questo mandato, quest’esercizio di moralità e intelligenza che si applica non ad altro che ai fatti prescindendo da ogni ideologico “impegno”.
Quanto al contenuto dei saggi di Sciascia, mi pare che la loro attualità e il gusto della rilettura stiano soprattutto in questo: che mentre parla di mafia, terrorismo, giustizia, politica, Sciascia parla sempre anche degli uomini in generale, e degli italiani in particolare, e che i suoi giudizi fanno sempre riflettere non necessariamente perché sono veri, ma perché sono interessanti e soprattutto – in un coro di virtuosi del non detto e della litote – perché sono chiari. A metà di un articolo sull’antimafia si legge per esempio:
I cortei, le tavole rotonde, i dibattiti sulla mafia, in un paese in cui retorica e falsificazione stanno dietro ogni angolo, servono a dare l’illusione e l’acquietamento di far qualcosa; e specialmente quando nulla di concreto si fa. I ragazzi bisogna lasciarli a scuola, che bene o male ancora serve. Se qualcosa di serio si vuol fare, perché non dar loro quella trentina di illuminanti pagine sulla mafia che si trovano nel libro I ribelli di Hobsbawm? Se ne può fare un opuscolo da distribuire largamente, e impegnando gli insegnanti a spiegarlo nel contesto della storia siciliana e nazionale. Costerebbe meno di quanto costano, in denaro pubblico, certe manifestazioni ‘culturali’ contro la mafia. E qui tocchiamo un altro punto, di un discorso che si deve pur fare sullo sperpero enorme del denaro pubblico per manifestazioni ‘culturali’. Ma tornando al sindaco di Palermo…
Qui l’associazione d’idee porta a toccare almeno tre punti che stavano a cuore a Sciascia come devono stare a cuore a qualsiasi italiano che viva con gli occhi aperti anche oggi, a più di trent’anni di distanza. Primo punto (e matrice del secondo e del terzo), la retorica che in Italia sta “dietro ogni angolo” e dà “l’illusione e l’acquietamento di far qualcosa”. Antiretorici come Sciascia sono stati forse solo due scrittori che Sciascia adorava, cioè Savinio e Brancati: ma forse più ancora di loro Sciascia teme l’unanimità, l’imbrancamento, l’irriflessa devozione a una causa, e il compiacimento dei devoti.
Secondo punto, la scuola, e che cosa fare con la scuola. La risposta di Sciascia suonerebbe di puro buon senso se il buon senso allora come oggi non fosse umiliato dalle mille “azioni parallele” che la scuola impone tanto a chi ci lavora quanto a chi ci studia: “I ragazzi bisogna lasciarli a scuola, che bene o male ancora serve”. E a scuola, se possibile, bisogna lasciarceli perché studino le materie curricolari, non la stramba civilisation della marcia della pace o dello sciopero per il femminicidio; né perché si apparecchino all’alternanza scuola-lavoro.
Terzo punto: lo “sperpero enorme del denaro pubblico per manifestazioni ‘culturali’”, cioè il problema della manutenzione della cultura. In una battuta d’intervista che si legge in La palma va a nord, la raccolta dei suoi scritti giornalistici di fine anni settanta, Sciascia è ancora più esplicito: “Quelle manifestazioni [culturali] che si poggiano generalmente sul denaro pubblico sono sbagliate e inutili”. Scandalo e bestemmia, nell’Italia delle mille mostre e dei mille assessorati alla cultura; ma come non vedere, oggi come e più di ieri, mentre scuole e università restano sottofinanziate, quali inutili o dannose idiozie si contrabbandano, a caro prezzo per la fiscalità generale e a esclusivo vantaggio dei troppi laureati in lettere, sotto il nome di “cultura”? (Avrebbe meritato, meriterebbe più lettori un libro tedesco tradotto qualche anno fa che argomenta questo punto di vista: Kulturinfarkt).
Resta la domanda scolastica intorno all’attualità di Sciascia, a quasi trent’anni dalla morte. Resta, nonostante egli sia oggi forse il più trasversale, il più universalmente stimato degli intellettuali italiani del secondo novecento, mentre dagli anni settanta in poi era stato uno dei più discussi e maltrattati: come se, svanite le occasioni della polemica (il terrorismo, la morte di Moro, la lotta alla mafia, la malagiustizia del caso Tortora e di tanti altri casi), di lui si potessero apprezzare ora senza più scorie l’intelligenza, il senso morale, la libertà intellettuale.